giovedì 15 aprile 2010

Hokusai Katsushika





Hokusai Katsushika

Katsushika Hokusai è il più celebre e, con Hiroshige, il massimo interprete della stagione più alta dell'incisione giapponese. E' forse l'artista non solo giapponese, ma asiatico più conosciuto nel mondo: Edmond de Goncourt gli dedicò un'ampia e dettagliata monografia già nel 1896.
Hokusai nacque nel 1760 in un sobborgo di Edo, l'antica Tokyo, che, con oltre un milione di abitanti, era allora probabilmente la più popolosa città del mondo. Quando, verso i diciannove anni, poteva considerarsi concluso il suo apprendistato artistico, era fiorente in Giappone l'ukiyo, una cultura subalterna a quella ufficiale, che dava i suoi frutti contemporaneamente nel teatro, nella letteratura e nelle arti visive, e che aveva la singolare peculiarità d'essere destinata a una particolare classe sociale.
La rigida, quasi feudale struttura gerarchica della società giapponese era composta di cinque classi che, in ordine decrescente di dignità, erano quelle dell'aristocrazia, dei guerrieri, degli agricoltori, degli artigiani e dei mercanti; mal tollerata era l'ambizione dell'individuo di passare da una classe all'altra. In fondo alla scala gerarchica del loro mondo, i mercanti si trovarono però, già agli albori del XVIII secolo, a detenere complessivamente un reddito incomparabilmente maggiore rispetto a quello delle classi più elevate.
Un particolare tipo di teatro che univa recitazione, danza e canto, il kabuki, oltre alle case chiuse del quartiere Yoshiwara, erano allora gli svaghi prediletti della classe dei mercanti: ai quali s'aggiunse presto l'ukiyoe ("immagine del mondo che fluttua"), che aveva il compito principale di trasporre in figura quel mondo privo forse di alti ideali, e teso alla gioia e al godimento più effimero.
Hokusai è stato forse il punto più alto dell'ukiyoe, ma non certo il suo iniziatore. Nato già nel'600, l'ukiyoe è stata la forma di autorappresentazione della più elevata società giapponese durante la dinastia Edo, trovando nella letteratura e nel teatro i suoi originari campi d'applicazione. La natura e i sentimenti umani, anche quelli più drammatici e scabrosi, trovano nell'arte ukiyoe una forma di catarsi simile a quella del teatro kabuki, concedendo di trattare anche ciò che le rigide convenzioni morali della società giapponese non avrebbero altrimenti permesso.
Inoltre, l'arte della xilografia, importata tempo addietro dalla Cina e dalla Corea, consentiva tirature altissime di ciascuna immagine (si contano in effetti stampe tirate in molte migliaia di esemplari), disponibili dunque per un elevato numero di potenziali clienti: nel suo passaggio cruciale dal bianco e nero al colore, essa da un canto assunse un'importanza e una dignità pari e fin superiore alla pittura, dall'altro impegnò un numero crescente di specialisti (il disegnatore, l'intagliatore, l'inchiostratore, lo stampatore, infine l'editore, che si dedicava a diffondere quanto più poteva le immagini prodotte).

In questo mondo nacque e si formò Hokusai. Da solo studiò la pittura delle scuole nazionali Kano e Tosa, gli stili cinesi e occidentali.
Dal primo maestro, Katsukawa Shunshou, uno dei principali interpreti della tradizione ukiyoe, ricevette il nome di Katsukawa Shunrou, primo d'una lunga serie di nomi d'arte che Hokusai si diede, nomi sotto i quali egli lavorava per un certo numero di anni, e che infine, ogni volta che si determinava a cambiare direzione di ricerca, lasciava in eredità ad un allievo meritevole.
Quando Shunshou morì, Hokusai seguitò per un poco il genere delle stampe ukiyoe dei suoi esordi, raffigurando soprattutto attori e scene di teatro; poi raccolse l'eredità (e il nome) dell'ultimo grande maestro dello studio di pittura Tawaraya, Sori, e divenne Sori II. Come tale, immaginò personaggi che, memori di Utamaro, si allungano e si flettono in pose improbabili eppure straordinariamente aggraziate, insieme malinconiche e distanti dal mondo, spesso distribuite sul foglio come note su un pentagramma, in cadenze lievi e astratte.
Circa il 1798, infine, egli lasciò ad un allievo (che divenne dunque Sori III) il suo rango di caposcuola nello studio Tawaraya e prese il nome di Hokusai, che significa "studio della stella Polare" e che egli serberà fino al 1810, quand'esso passerà al migliore dei suoi allievi, che assunse il nome di Hokusai II.
Hokusai prende quindi a firmarsi Taito, poi Iitsu, in ultimo Manji, qualche volta però aggiungendo ai nuovi nomi la specificazione "il già Hokusai", come sapesse già che quel nome con il quale egli aveva attinto la piena maturità sarebbe rimasto il suo per sempre.
Questi anni vedono, nell'arte di Hokusai, la nascita di una nuova figura umana, in special modo femminile, ormai lontana da quella serpentina e leggera, elegantissima, di Utamaro: una figura falcata ma possente, quasi monumentale, delineata da un segno talora sommariamente geometrizzante.
Si affacciano di frequente immagini di animali - l'anatra e la carpa, la tartaruga e il leone - in bilico fra un acuminato realismo e una straniante intenzione metamorfica, che poco più tardi sfocerà in una ironia a mezzo fra divertita e grottesca.
Dopo essere stato Taito, a sessant'anni Hokusai prese poi il nome di Iitsu, e come tale pensò al paesaggio riservando ad esso un ruolo nuovo, ora del tutto autonomo, nell'economia dell'immagine: è il momento, questo, dello strappo definitivo operato da Hokusai rispetto alla tradizione iconografica e formale della stampa giapponese.
Nacquero allora alcune delle sue serie più famose, come le Trentasei vedute del monte Fuji, le Mille immagini del mare, o le Vedute insolite di famosi ponti giapponesi, nelle quali l'ambiguità fra spazio narrato e evocato, prospettico e di superficie; la figura umana ostinatamente presente ma come riassorbita e dispersa nel ritmo più vasto della natura; e le forme di quella natura ridotte a sagome, eppur ancora pregne di vita - nelle quali tutto, infine, sembra poter essere una cosa e il suo contrario, in una dialettica infinita che, forse, allude all'eterno.

Come Manji, Hokusai firmò, nel 1834, il primo volume delle Cento vedute del monte Fuji. In calce alle Cento vedute, egli dettò alcune righe che oggi Gian Carlo Calza, professore d'arte dell'Estremo Oriente all'Università di Venezia e uno dei maggiori conoscitori della cultura e dell'arte giapponese, definisce "una sorta di telegrafico testamento spirituale, ma anche programma di ricerca pittorica".
La nota biografica recita:

Già all'età di sei anni ho cominciato a disegnare ogni sorta di cose.
A cinquant'anni avevo già disegnato parecchio, ma niente di tutto quello che ho fatto prima dei miei settant'anni merita veramente che se ne parli.
E' stato all'età di settantatre che ho cominciato a capire la vera forma degli animali, degli insetti e dei pesci e la natura delle piante e degli alberi..
E' evidente perciò che a ottantasei anni avrò fatto via via sempre più progressi e che, a novant'anni, sarò entrato più a fondo nell'essenza dell'arte.
A cento avrò definitivamente raggiunto un livello meraviglioso e, a cento e dieci anni, ogni punto e ogni linea dei miei disegni avrà una sua propria vita.
Vorrei chiedere a coloro che mi sopravviveranno di prendere atto che non ho parlato senza ragione.
Scritto all'età di settantacinque anni da me, un tempo Hokusai, oggi Gokyorojin, il vecchio pazzo per il disegno.

Era tanto maniacalmente impegnato nella comprensione del proprio mestiere che, in punto di morte, avrebbe confidato alla figlia: "Se avessi ancora cinque anni a disposizione, potrei diventare finalmente un pittore". Hokusai sapeva dove voleva arrivare. A noi rimane, dopo la sua morte nel 1849, solo il dubbio di poter leggere, senza tradirlo, il senso delle sue immagini.

La grande onda

L'onda presso la costa di Kanagawa è certamente l'opera più universalmente nota di Hokusai, anche se alcuni studiosi sostengono che questa straordinaria xilografia policroma non è delle più tipiche perché, appartenendo al periodo Iitsu, risente degli influssi europei (e forse, proprio per questa ragione, è più apprezzata anche fuori dal Giappone).
In quest'opera, che fa parte della straordinaria serie delle Trentasei vedute del Monte Fuji (1830-1832), ci troviamo dinanzi a un'emozionante interpretazione della realtà che sconfina persino nel paradossale e nel grottesco.
Il dato naturale lo sentiamo, ci sembra rappresentato con assoluta verosomiglianza. Ma sappiamo anche che questa immagine è lontanissima da ogni realismo naturalistico. Fedeltà al reale? Piuttosto fedeltà al senso profondo, ma visibile, del reale.
Un'onda vera viene trasformata dall'alchimia dell'arte, e dello stile, in un segno indiscutibile. Nell'emblema smagliante di ogni altra onda. Un emblema da vedere, e da ritrovare nel pensiero.
Non c'è dubbio che per un visitatore europeo l'approccio all'arte nipponica non può che apparire arduo e l'apprezzamento viziato quasi sempre, o da pregiudizi culturalistici, o da vere e proprie difficoltà "percettive".
In altre parole: quella particolare resa spaziale ("a volo d'uccello", kunimi), quel particolare effetto di "vuoto", di slivellamento ("imballance" secondo Suzuki), quella strana "povertà" (wabi) così tipiche di buona parte dell'arte giapponese, fanno sì che alcune peculiarità delle opere diventino eccezionali, mentre lo sono solo rispetto alla nostra visione del mondo.
Come ogni altro pittore veramente grande, Hokusai ci mostra che vedere vuol dire conoscere. Lo stile, in lui, è una teoria del mondo. La forma di un sapere. La figura, è un concetto incarnato.

Alcuni pareri

Ecco una breve citazione dall'opera di Edmond de Goncourt del 1896:

Nei due emisferi l'ingiustizia nei confronti di qualsiasi talento indipendente del passato è dunque la stessa!
Ecco il maestro che ha vittoriosamente sottratto la pittura del suo paese alle influenze persiane e cinesi e che, attraverso uno studio per così dire religioso della natura, l'ha ringiovanita, l'ha rinnovata, l'ha resa tutta giapponese; ecco il maestro universale che, servendosi di un disegno ricchissimo di vita, ha raffigurato l'uomo, la donna, gli uccelli, i pesci, gli alberi, i fiori, i fili d'erba; ecco il maestro che ha eseguito, a quanto pare, 30.000 fra disegni e pitture; ecco il maestro che è il vero creatore dell'ukiyoe, il fondatore della "scuola volgare", l'uomo cioè che non accontentandosi, sulla falsariga dei pittori accademici della scuola di Tosa, di rappresentare, con un preziosismo convenzionale, i fasti della corte, la vita ufficiale degli alti dignitari, le artificiosità pompose delle esistenze aristocratiche, ha fatto entrare nella propria opera tutta quanta l'umanità del suo paese, con una realtà che nulla ha a che vedere con le raffinatissime esigenze della pittura in auge; ecco infine l'uomo appassionato, invaghito della propria arte, che firma le sue opere con una confessione: pazzo per il disegno...
Ebbene questo pittore - a prescindere dalla devozione che gli riservano i suoi allievi - è stato considerato dai suoi contemporanei nient'altro che un manutengolo della canaglia, un artista di scarto, dalle produzioni indegne di essere poste sotto gli occhi delle persone serie e di buon gusto dell'Impero del Sol Levante.

Luisa Gnecchi Ruscone, assistente di psicologia della forma presso l'Università di Piaget di Ginevra e l'Accademia di Belle arti di Brera a Milano nonché esperta di tatuaggi giapponesi (irezumi), dice di Hokusai:

Hokusai incarna tutto ciò che i giovani di oggi vorrebbero dall'arte e che il mondo dell'arte ufficiale non sa dare loro. Mi aspettavo che venisse colta questa occasione [la mostra svoltasi a Milano, Palazzo Reale, dal 6 ottobre 1999 al 9 gennaio 2000] per sottolineare quanto Hokusai abbia saputo essere partecipe e interprete dei sentimenti e dell'anima della gente del suo tempo e quanto abbia saputo dare loro.
La sua opera era rivolta alla gente comune e della gente comune del suo tempo ha saputo cogliere e capire l'anima più profonda ed esprimerla nei suoi disegni con grande lucidità e precisione.
Hokusai illustrava racconti popolari d'avventura (un po come i fumetti di oggi) e seppe capire talmente bene qual era lo spirito che animava la nuova classe emergente borghese delle grandi città, inventò per loro un eroe nuovo, non più un nobile, ma un uomo del popolo, coraggioso, leale, forte, vestito solo con delle brache e con la parte superiore del corpo nuda, con la pelle decorata da elaborati tatuaggi.
L'intuizione fu geniale, tanto che da essa nacque un nuovo stile di tatuaggio che venne adottato come simbolo dei principi di giustizia e di libertà della nuova classe emergente. Il tatuaggio giapponese deriva quindi dall'opera d'arte di un artista che osservava la gente, la capiva e l'aiutava a capire se stessa. [...]
A due secoli dalla morte, l'opera del geniale artista continua a colpire un numero sempre crescente di persone, giovani e non, in tutto il mondo. [...]
Lo hanno posto tra i "superiori", tra quelli che "bisogna" rispettare, di cui si fa bella figura a ricordare i nomi di tutte le fasi dell'evoluzione artistica, e i diversi nomi con cui ha firmato le sue opere, hanno creduto di rendergli il dovuto riconoscimento rendendolo materia da "esperti", senza capire e far capire al pubblico che la sua grandezza sta proprio nella sua capacità di comunicare a tutti, di essere semplice.
Mi occupo da anni di storia del tatuaggio e quello inventato da Hokusai è senz'altro una delle forme più raffinate che questa pratica ha saputo raggiungere; persino i più accaniti nemici del tatuaggio non possono che riconoscere la qualità iconografica e tecnica.

Il giapponismo

Molti pittori francesi, come Manet, Monet, Branquemond, Moreau, Lautrec, Kubin, Rivière, Zola, Dégas, Gauguin, Matisse, Denis e Bonnard, furono veri appasionati e talvolta emuli dell'arte giapponese, dando origine al fenomeno del Japonisme.
L'artista nipponico più conosciuto era indubbiamente Hokusai.
Di Hokusai diventarono ammiratori incondizionati non solo gli artisti, ma anche gli scrittori (abbiamo già citato Edmond De Goncourt), i filosofi dell'estetica (Henri Focillon) e i critici (Gonse, Duret). La figura di Hokusai riassume e incarna questa evoluzione del gusto. A meno di dieci anni dalla morte era una vera leggenda nella Francia dei grandi movimenti artistici.
Che il Giappone fosse di casa in Europa non lo testimoniano soltanto i paraventi a fondo oro utilizzati nei loro dipinti da Tissot, Fantin e soprattutto Whistler; o il costume da samurai indossato da Toulouse-Lautrec in una fotografia scattatagli nel 1892 dall'amico Maurice Guilbert; o, ancora, il fatto che, sullo sfondo del ritratto del mercante parigino Père Tanguy, di Vincent Van Gogh, figurino stampe e dipinti di artisti giapponesi.
In effetti, si trattò di qualcosa di più di un semplice scambio culturale. Fu un vero e proprio virus che dilagò in tutta Europa sollecitando gli artisti a inedite esplorazioni. Una specie di attrazione fatale che non si può spiegare solo con la storica apertura, nel 1854, dei porti nipponici alle navi occidentali, ma che fa pensare a qualcosa di ben più complesso.
Qualcosa che sussiste tuttora, in termini di attenzione rivolta verso il Giappone, tra moda, design, video-arte e il mai tramontato interesse per l'ukiyoe, quell'arte fluttuante allusiva alla transitorietà della vita, tanto ammirata da impressionisti e post-impressionisti.
Migliaia e migliaia di disegni furono diffusi, secondo un aneddoto, dall'incisore parigino Félix Braquemond, che avrebbe scoperto casualmente, nel 1856, un volume dei Manga usato come imballaggio di un carico di ceramiche provenienti dal Giappone.
Se Braquemond fu l'inconsapevole iniziatore della voga giapponista, Edmond de Goncourt scrisse una delle tre monografie su Hokusai che nel giro di pochi anni, tra il 1896 e il 1914, furono pubblicate in Francia: le altre due sono a firma di Henri Focillon e di Marcel Revon. Calza lo definisce "un caso unico in tutta la storia dell'arte orientale".
Non che i suoi colleghi, come Utamaro o Hiroshige, fossero meno apprezzati, ma l'opera di Hokusai divenne in breve tempo paradigmatica dell'arte nipponica.
Complice anche l'eccentricità del personaggio, il suo essere un fuoricasta, un folle o "un vecchio pazzo per la pittura", come lui stesso amava definirsi.
Un innamoramento che non fu a senso unico. Già nel 1790 il pittore giapponese Utagawa Toyohanu intitolava "Porto di Furankai" la copia fedele di una veduta del Canaletto, approdata in Giappone grazie alle fortunate riproduzioni a stampa di Antonio Visentini.

Il mercato dell'arte

La popolarità di Hokusai è affidata oggi essenzialmente alla grande diffusione delle sue xilogafie. Se ne trovano parecchie sul mercato dell'arte con valori che oscillano moltissimo, a seconda dello stato di conservazione dei colori. Un bell'esemplare della "Grande onda", tra le sue immagini più celebri, può costare anche 240 milioni di lire: a tanto l'ha aggiudicato Sotheby's in un'asta svoltasi a Londra nel 1997. Diversa è la situazione dei dipinti, molto più rari. Un esempio per tutti: la "Tigre", proveniente da un museo privato di Tokyo integralmente messo all'asta da Christie's, è stata venduta per più di un miliardo di lire.

Bibliografia

Calza, Gian Carlo. 1999. Hokusai. Il vecchio pazzo per la pittura. Electa.
Gnecchi Ruscone, Luisa. Hokusai e l'arte del tatuaggio giapponese. Arti d'Oriente, novembre 1999.
De Goncourt, Edmond. 1989. Hokusai. Un maestro dell'arte giapponese. Jaca Book.

Nessun commento:

Posta un commento